Thursday, August 27, 2015

Giob market

L'università è un'istituzione, bzzz..., fondata sul lavoro. L'università riconosce a tutti bzzz bzzz il diritto al lavoro e promuove... bzzz creeeck bizzzbziiizzzzz...

Non si capisce un granché, la linea è disturbata e a un certo punto sembrava che leggessero la costituzione di un ateneo. Mah. Provo a reagire alla sensazione, percepita troppo spesso di recente, che l'unico job market sia quello a stelle e strisce.  Su questo tema sono disponibili strepitosi elenchi di suggerimenti: uno l'ha prodotto Loriana, una collega che ho quasi eletto a modello esistenziale tanto è venerabile, brava, frizzante e capace di lavorare come una ruspa. Un altro lo trovate qui, a cura di Peter Iliev, leggete entrambi, non possono fare male. Ma oggi vi parlo del giob market,  quello dei poveri, e proverò a sfatare la leggenda che l'unico job per cui vale la pena vivere sia americano e che, al contrario, i giob che trovate da noi siano brutti, sporchi e cattivi.

Il giob market italiano è l'insieme delle opportunità di lavoro post dottorato offerte dai circa 90 istituti universitari della penisola.  90 "atenei" non sono pochi, alcuni sono di prim'ordine, alcuni sono sotto casa, in tutte le sedi trovate facilmente pasta, olio d'oliva e pomodori (la triade che denota alta qualità della vita, credeteci o meno!). Il problema è che i bandi non sono pubblicati in un sito centralizzato e bisogna cercarseli col sudore della fronte in 90 siti web, stando attenti a non perdere scadenze ravvicinate e a rispettare norme burocratiche diverse da sede a sede.

Cercarsi un lavoro non implica necessariamente andare a Chicago, Boston o San Francisco in Gennaio, a spese proprie, e fare molte interviste sperando di vincere prestigiosi fly-outs (biglietto pagato per andare a fare un seminario presso la sede che vi sta esaminando).

Cercarsi un lavoro significa anche affinare la nobile arte di scandagliare i siti coi bandi per assegni di ricerca (il nome è lassativo, lo so, specie se confrontato con figate come post-doc o financo tenured). Una differenza c'è: i contratti che puoi vincere là sono spesso pluriennali (3 o 5 anni) mentre qua se va bene vinci un contratto annuale rinnovabile per un altro anno. Poi tocca partecipare ad altri bandi.

Per fare un'intervista quà o là è meglio essere preparati, capaci nell'arte della sintesi, eye-contact (quella roba per cui guardate chi vi ascolta/vi parla e non le slides; normale, a casa e al bar lo fate sempre), saper descrivere il vostro lavoro e contestualizzarlo nella letteratura, sorridere il giusto senza strafare ed evitare di indisporre l'interlocutore, avere l'ascella e l'alito in ordine...

Rileggete le frasi precedenti: grondano di un'ovvietà veramente indecente.  In cosa il vostro comportamento in USA (interview) dovrebbe differire da quello che tenete di fronte a una commissione per un assegno (colloquio)? Se fate schifo, sembrerà che anche la vostra ricerca sia debole, a meno che un interviewer/commissario non dica frasi come "ma i paper sono meglio..."; se siete stati bravi e charmant, anche la vostra ricerca sembrerà più interessante, anche se c'è sempre quello che dice "si, la racconta bene ma i lavori sono troppo semplici/complessi/generali/dettagliati..."

Tutta l'enfasi che vedo sul job market mi sembra a volte un modo viscidamente subliminale per dire che solo lavorare là ha senso: ha certamente molto senso vincere un posto per 5 anni a NYU, UCLA, Yale e altri posti simili; ne ha forse meno vincerlo in oneste istituzioni di media classifica sperse nelle steppe del Tennessee (o altro stato a caso); ha anche parecchio senso vincere un assegno di ricerca nel giob market italiano e andare in un ateneo nazionale, dove magari lavorano persone civili, che pubblicano, che sono state in giro per il mondo più di molti americani. O no? Quello che ha pochissimo senso è andare svaccati e impreparati all'interview o colloquio che sia, mostrando da un lato o dall'altro dell'oceano la vostra parte peggiore, disorganizzata e maleodorante.

Sottolineo qualche altra cosa, spesso spezzatino di vita vissuta:
  • Il job market paper è frequentemente il centro dell'interview e quindi dovrebbe essere bello e anche fotomodello e lo dovete conoscere bene. Sento dire che dovrebbe essere a un nome solo e, possibilmente, di prossima pubblicazione su rivista A+. Essere l'unico autore semplifica le cose ma non sono certo che sia indispensabile in una scienza che ormai vede quasi sempre team di molte persone lavorare insieme. Di sicuro, un solo nome aiuta ad evitare che vi dicano che è merito del coautore... ma se ve lo dicono forse vi avrebbero detto qualcos'altro anche se il paper fosse stato a un nome solo.
    Ho sempre faticato a capire come un interviewer, che vede anche una dozzina di candidati bravi in un giorno, possa capire al volo se un working paper finirà su JET o Econometrica, tritacarne con tassi di accettazione sotto il 10%. Certo, ci sono interviewer bravi ma sono scommesse e se c'imbroccano è una mandrakata!
    Eppoi, lasciate che lo scriva, mi sta sulle balle questo modello "gallina dall'uovo d'oro": l'idea che assumi la gallina perché sganci l'uovo proprio nel tuo pollaio nei 3 anni in cui ci sta, sento un cattivo odore (di schito di gallina, in Veneto). Anche perché se ti hanno assunto come ovaiola/o e per qualche motivo tu non fai l'uovo A+ nei tempi prescritti, coerentemente ti danno un calcio in culo, baby. È questo l'ateneo in cui volete lavorare? Anche si, se è NYU, UCLA, Yale e così via; ma l'idea vi dovrebbe piacere meno in generale. Ci sono atenei, anche italiani, che non trattano la gente come galline estrogenate e, talvolta, attendono che uno maturi e dia qualche frutto a suo tempo.
  • Al tipico colloquio italiota la commissione guarda anche altre cose. Di sicuro le guardo io. È incomparabilmente meglio se i giob market papers che allegate alla domanda in Italia (notate il plurale) sono già pubblicati formalmente. La legge prescrive di valutare le pubblicazioni e i titoli, non il potenziale delle uova non ancora deposte. Alla fine si stila un punteggio in cui si prendono tanti punti per ciascuna pubblicazione, ripeto pubblicazione, non idee brillanti vergate su promettenti working papers.
    È raro presentarsi con pubblicazioni già stampate di livello A+ o anche A o B. Ma qualche pubblicazione formale su rivista scientifica, anche medio-bassa, anche su libro editato, anche su atti di convegno aiuta la commissione a darvi dei punti. Se uno presenta solo working papers, anche molto promettenti, finisce spesso malino.
    Osservate che non ho detto che bastano paper mediocri per avere il posto e se un candidato ha pubblicazioni migliori vi scavalca, ovvio. Sto cercando di dire che, IMHO, serve un portafogli di cose (un paper su rivista, un articolo su volume, due working papers) che mostri alla commissione che avete valore e prospettive; che avete già fatto qualcosa; e che gli consenta di darvi i punti per farvi arrivare primi nella graduatoria finale.
  • Volendo si potrebbe discutere di quale sistema sia meglio (do per assodato che gli stipendi in USA sono meglio dei nostri... è come sparare sulle croce rossa). È meglio assumere uno con un working paper buono o uno con tre giob-pubblicazioni già stampate? Ditemelo voi: capirei sia l'azzardo di prendersi il primo che la comparsa di un articolo del sempre-sia-lodato G. A. Stella: tiro ad indovinare il titolo, "Commissione prende un bociassa senza pubblicazioni al posto di trentaduenne con 3 articoli su rivista e 4 assegni già vinti". Poco importa se gli articoli fanno schifo, il pezzo di Stella mostra come nessuna alternativa domini l'altra in alcun modo sensato.
  • Il giob market italiano ed europeo è meno rutilante di Chicago sotto il gelo, è più faticoso e precario. Andare all'estero è cosa buona e giusta e si guadagna di più. Ma vale la pena riflettere, siamo economisti e ci sono costi fissi e sunk cost emotivi, familiari e personali. Se siete come Tex Willer, che dorme nella prateria in posti sempre diversi, girate pure il mondo; ma non siete obbligati mandare in vacca la vostra vita se non siete adatti a fare il globetrotter (perché vi mancano amici, famiglia, amore, pasta, olio, pomodoro...)
    Mi sento una vecchia ciabatta intessuta di risorgimentale romanticismo ma lasciate che vi ricordi che potreste anche lavorare nel vostro paese e migliorarlo: avremo anche pasta, olio, pomodoro e molto altro ma non ci mancano di sicuro le occasioni per  contrastare mostruosità e vizi tipici del Bel Paese. Ricordo infine che molti fra gli italiani che lavorano all'estero mi fanno tenerezza per quanto soffrono e desiderano di tornarsene a casa loro: tu pensi che siano super-fighi e loro si consumano tristemente nella nostalgia...
Concludo con un GANTT diagram (maronna, ormai parlo come loro!) che mostra che i brutti tempi di adesso non siano diversi da quello che succedeva una decina e rotti d'anni fa. Lo dico per tirare su di morale e dissipare l'idea che questi sono i tempi più bui che la storia accademica ricordi. Nota metodologica: sono dati relativi a uno che conosco (sample size = 1), un tizio inaffidabile con gli occhiali neri che scrive pure post strani in un blog sottosopra.

Anno 0: laurea nel nord-est
Anno 1: supplenza in un liceo del nord-est
Anno 2: vince borsa di dottorato (fieramente segato in quattro concorsi, vinto il quinto)
Anno 2-4: PhD nel nord-est
Anno 5: all'ISTAT per un anno, sede regionale nel nord-est,  nonostante le pressioni per stare in università senza stipendio ad aspettare ("Ma che male può farmi un anno all'ISTAT? Vi saluto!'')
Anno 6: ricercatore nel nord-est

A conti fatti, posto fisso a 31 anni; poi, associato a 37; nel doman non c'è certezza e la speranza è l'ultima morire ;-)

Sunday, August 23, 2015

Pandelleria

Arrivo. Chiedo al finanziere con la massima cortesia possibile se si può vedere l'hangar di Nervi. Mi dice di no, "grazie", silenzio, ridico "grazie", mi attendo un "prego", silenzio di nuovo.

Alfredo arriva con più di mezz'ora di ritardo a prenderci, aveva capito che arrivavamo via nave (da Treviso in effetti non è semplice...). Dobbiamo attendere un'oretta prima che ci diano il dammuso alle 9.30, gli domando di portarci a fare colazione "Da Katia", pasticceria numero uno su tripadvisor. Ci porta "Da  Giovanni", subito penso che è un ben strano tipo ma nel tempo questo microscopico bar in Piazza Cavour, a fianco del municipio, si dimostrerà una delle pietre angolari del nostro soggiorno pantesco. Una meraviglia di baci, brioches, cornetti, cannoli "riempiti" sempre al volo da signore toste che ormai ci sorridono, tante sono le volte in cui abbiamo fatto tappa là.

Bouganville, vento, sole, strade strette che non ci passano due macchine e in certi casi anche una fatica a destreggiarsi fra muretti di solidi mattoni di pietra lavica. Facciamo un detour a vedere il Lago di Venere, infangarsi qui sembra un obbligo cui io e Cesira ci sottraiamo senza gran rimpianti.

Dammuso. Ci accolgie Leo(nardo), architetto bresciano a Pantelleria da molti anni, con cacioeta d'ordinanza, ci fa vedere le stanze di questa casa rustica, con la biancheria d'epoca un po' ingiallita e il pavimento di mattonelle grezze. Subito qualche dubbio ci viene, più che altro pensando al prezzo dell'affitto per una settimana e alla sua maglietta "fruit of the loom" alquanto sdrucita (con coerenza inflessibile, porterà questa o una identica tutte le volte che lo abbiamo visto). Poi ci abituiamo: è un bel dammuso, forse bellissimo, coi fiori e la piscina, una vista a ovest che spazia su un mare rapitore. Tira il solito bel vento, maestrale in certi giorni e scirocco in altri, che aiuta a resistere sotto un sole gagliardo. Siamo non lontani dall'aeroporto e vediamo passare, tavolta in atterraggio talaltra in decollo a seconda del vento, 4-5 apparecchi al giorno.


Panda. La viabilità in quest'isola è quel che è, non attendetevi 4 corsie e nemmeno 2 a dir la verità. Quindi, in Panda veritas. Non so perché le Pande vadano per la maggiore, a rigore potrebbero bastare anche anche auto piccole. Che ne so? Le 500, le Nissan, qualche Corsa o Renault o Punto di piccolo calibro. Ma non c'è storia: a parte eccezioni, Pande a non finire. Le usano i locali, modelli vecchi spigolosi e nuovi più tondeggianti; le danno a noi turisti, spesso di un gialletto che ben s'intona col colore di secco e l'ocra delle case; passano ovunque, si insinuano nei piccoli allargamenti stradali che servono per dare via a chi viene nella direzione opposta. Mi fanno ricordare, con qualche ben più che ventennale fierezza, la mia Panda rossa, prima autovettura su cui ho messo le amni da neopatentato.

Back to basics. L'idea in fondo me la da il ristorante "Al Tramonto" di Scauri, secondo centro abitato dell'isola con le sue 8 case, chiesa e farmacia. Mi servono una fetta di pane coi capperi. "Pane coi capperi"? Mi scatta la molla della semplicità alimentare estrema, cosa tutt'altro che sconosciuta anche in Veneto. E vai con pane e capperi, con qualche insalatiera ricolma di pomodori rossi rossi da sembrare troppo maturi ma in realtà duri e gustosi. Mi dicono che crescono senz'acqua, ci aggiungo qualche fetta di melanzana locale scottata in padella. A un certo punto scopro pure il frutto del cappero, una specie di grande cappero evoluto e succulento, sempre pane a volontà. Sarà semplice finchè vi pare ma questa è bella vita, culinariamente parlando. Sarà semplice ma mi ricordo mentre addento che ingredienti buoni rendono quasi superfluo l'atto del cucinare. Leo ci aveva dato, come segno d'accoglienza, un vassoio di pomodori, patate e zucchine pantesche: roba buona e molto molto gradita.

Back to basics sembra anche un modo per riassumere quest'isola vulcanicamente potente e arabeggiante: vento, sole, mare, capperi, luce f22. Tutto è forte, senza mezzi toni, il resto è spazzato via. Mi pare una buona metafora di molto altro e vi risparmio i dettagli.

Varie. Col vino ci è andata male, in un certo senso. A parte la bottiglia presa al ristorante, zibibbo secco Basile di ottima qualità, gli altri due acquisti della MInardi sanno nettamente di tappo. Una volta può capitare. Due no, ti e i to morti cani!

Il terreno è ricoperto di sbusottini, nomignolo affibiato a dei semi aguzzi con pungiglioni, sparsi a centinaia da un'infestante che pavimenta vaste zone del giardino. Camminare scalzo è una cosa da fachiri e antitetanica. Siete avvisati, questi cosetti rischiano perfino di bucare le havaianas, una suola di gomma è una polizza (Valpiave!) sulla vita.


Non è l'unica cosa tagliente dell'isola. Senza nemmeno scivolare Cesira si apre per buoni 20 cm lo stinco su una pietra a Gadir. Non le fa nemmeno tanto male ma è una ferita visivamente da paura e andiamo in pronto soccorso a Pantelleria. Qualche punto, qualche graffettina e il bendaggio mettono tutto a posto (ma niente bagni da quel momento in poi, senza per altro che fosse semplice andare a mare qui, tutti scogli e nessuna spiaggia). L'ospedale mi fa simpatia: aria lievemente condizionata, una signora in camice sta pulendo le finestre, tutto brilla e odora di spic e span, w la sanità pubblica!

Libri. Mai avrei pensato di trovare "Se questo è un uomo" di Primo Levi un libro quasi ironico. Spero di non suonare offensivo ma al di là di ciò che racconta ci sono una visione tersa e un rigore scientifico in quel che dice che mi hanno lasciato dentro una geometrica limpidezza di spirito.  Ci sono perfino parti in cui spiega con chiarezza abbagliante l'economia del lager, come se fosse una cosa normale. Mi spingo a citare qualche frase.
  • Il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli; 
  • Con l'assurda precisione a cui avremo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l'appello; 
  • Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi. 
Slegate dal contesto sembrano riflessioni sulla crisi economica europea e sulla traballante politica della grande Germania... Ho anche letto "Stoner" di John Williams (grazie Anna!), è un bel libro, intenso e screziato: a pagina 225 leggo che "L'amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un'altra".

Wednesday, August 05, 2015

Resistere, resistere, resistere

Tanto per iniziare, mi ricordo che il titolo andrebbe applicato a questo post che forse non era da scrivere.  Non ho le idee chiare né forse è possibile averle su un tema come questo.  Ma sono numerosi i casi in cui le idee si affinano se provi a dipanarle e qualche passaggio pur fumoso e indistinto magari aiuta a snebbiarsi.

Nell'anno di grazia 2015 scoccano i 100 anni dall'inizio della grande guerra e i 70 dalla fine del secondo conflitto mondiale.  Una cosa, forse, non c'entra con l'altra ma vivo in una regione che ha lo strambo privilegio di avere sperimentato fatti ed eventi non marginali di ambedue i periodi, trasudiamo di "della battaglia", tanto per dare un'idea, e monti, valli e pedemontane rimbombano di storie, lapidi, fantasmi e ricordi; il Piave dove "non passa lo straniero" scorre in posti vicini a mezza della mia famiglia; il massiccio del Grappa, quello della Brigata Martiri, dalle mie parti non lo vedi solo quando piove o c'è foschia da afa prolungata.  È la mia montagna, il posto dove vado, solo là, quando ho voglia di camminare tre ore.  Da tempo pensavo che mi sarebbe piaciuto capirci di più e due casi serendipitosi mi hanno dato l'occasione di mettere giù due pensieri per i quattro lettori.  Il primo è lo spumeggiante pezzo di Wu Ming 1, "Cent'anni a nordest'", da invito a cena! Ho visto che ora ci ha cavato un libro ma a me sono bastati e avanzati i tre interventi su "Internazionale" per liberare microsismi di curiosità e desiderio di sintesi.  Poi c'è stato Aldo Cazzullo e la "Biblioteca della resistenza" sul Corriere.  È già sparita dalle edicole (perché?), ma la ritrovate su http://www.corriere.it/iniziative/bibliotecadellaresistenza/piano.html.  Io mi sono preso Fenoglio, Vittorini, Calvino, Meneghello, Bocca e Tobino.


Come vedete, ho fatto una scelta e ho tralasciato la prima guerra mondiale, pazienza.  Per oggi ragiono, parola grossa, su quel che è stata la Resistenza, con la "R" maiuscola, per quel che ho letto in questi 6 libri.  Scrivo di questa cosa su cui si fonda la nostra repubblica, su cui sono vagamente ancorate le mie radici cultural-politiche e su cui si accapigliano a distanza di 7 decenni ad ogni 25 Aprile proprio quelli che non c'erano e forse ne han letto molto meno di libri.  Stop.  Niente cazzate sui libri e sulla realtà, ormai le memorie sono svaporate, andate con quelli che sono partiti per la montagna e con quelli (pochi) che hanno ammesso di essersi vestiti di nero.  Non ce ne sono più, ci restano solo i libri e la consapevolezza che gli scrittori bravi sono quelli col dono di dirti chi sei meglio di quel che hai capito da solo.


Fenoglio mi racconta una storia bellissima e fou di questo partigiano eroso dal bisogno di sapere se la sua bella l'ha tradito.  Ho pensato che non gli bastava il casino che c'era intorno, in un Piemonte dove si sono massacrati cupamente, ci voleva pure uno sbrego nel cuore.  Che cosa ne può venire fuori se non una sofferenza indicibile e il tentativo riuscito di farsi ammazzare, non si sa bene se per l'Italia che verrà o per il dubbio di avere perso l'amore della vita?  Per certi versi le due cose mi sembrano anche metaforicamente vicine: deve egualmente aver poco senso amare Fulvia in un paese violentato dai fascisti o vivere in un Italia finalmente libera senza di lei...

Del libro mi sono rimasti la bellezza della scrittura, la disperazione tesa in cui vivevano tutti, la violenza affiorante nell'uso di fucilare i prigionieri da ambo le parti se entro un giorno non si trovava un compagno con cui fare uno scambio.  Lo ripeto: l'unico modo in cui un fascista o partigiano catturato dall'altra parte durava più di 24 ore era quando veniva scambiato con un altro tizio che, simmetricamente, era stato catturato dagli altri.  A meno di una botta di culo (ma veloce!), pallottola nella nuca. Dura vendetta sarà del partigian, ormai sicura è la dura sorte, del fascista vile e traditor.  Punto.

Lo stesso delirio di sofferenza personale, stavolta intarsiata di lotta urbana milanese e gappista, è in Vittorini.  Con molto rispetto: due maroni di libro, ho detto "molto rispetto" ma non so che farci.  Ho faticato a sopportare le pagine, mi toccava leggere veloce le parti di asfissiante agonia umana, fra cani che sbranano i prigionieri, amori complicati da morire, voglia di suicidarsi.  Poche lame di luce e tanta sofferenza in quelli che la vulgata vuole si siano battuti (radiosi?)  per la nostra libertà e il sol dell'avvenir.  Ho quasi pensato che gli storici hanno fatto bene a stendere un pietoso velo su tanta assassina disumanità, da una parte e dall'altra: non si può, forse non si deve, continuare ad essere precisi su certe cose.  È l'unico modo, diluire e sfocare, in cui almeno si coltiva la speranza che la brace si spenga sotto la cenere, col tempo e gli anni.  Lo scrivo ma non lo penso del tutto: mezzo cuore e mezzo cervello pensano che a stendere veli si peggiorano solamente le cose, capire e conoscere sono forse le uniche dolorose vie per chiudere i conti, dato che il tempo chiude solo le ferite purulente a furia di generazioni (e neanche sempre).

Calvino ha il dono della parola e mi sono gustato l'insensatezza di vedere le cose con gli occhi del Pin, il bambino cresciuto in fretta che ci svela quanto noi grandi siamo sia idioti che condannati a fare quel che "serviva".

Meneghello finalmente mi ha elevato lo spirito raccontando con garbo e poesia la "mia" resistenza, nel bellunese, sull'altipiano di Asiago e a Padova, con la mia lingua mentale e brandelli di dialetto.  Cosa ci ho capito?  Poco, ma era il poco giusto, quello in cui ethos non si sa che cosa vuol dire perché non si può tradurre in Veneto.  Quel poco forse è tutto quel che c'è da capire: a volte due partigiani e due fascisti non si sparavano quando s'incontravano in un sentiero, forse fingendo di essere coppie di amici che vanno a funghi (con lo Sten a tracolla?  Magari andavano a osei...)  Nel libro manca la violenza esibita e diretta e anche l'agonia interna delle persone.  O meglio, te la puoi immaginare se leggi in obliquo che c'erano rastrellamenti un mese si e uno no, con gli Ucraini "specialisti in partigiani" (e gran figli delle loro grandi madri, ndr); se pensi al viale dei Martiri di Bassano, un "bandito" appeso per ogni albero; o se ripercorri l'episodio della Valsugana in cui i partigiani hanno impiccato a dei ganci due tedeschi nello stesso palo dove due giorni prima gli altri avevano lasciato penzolare due ribelli.  La simbologia conta eccome, anche dove l'ethos non attacca per niente.

I dettagli non ci sono mai e il testo è intriso dell'autoironia di questo piccolo maestro andato in montagna dove ha combattuto, si è salvato e se l'è presa fissa sui denti.  Democristiani (da noi) e comunisti (altrove) erano molto meglio organizzati di quelle anime belle di azionisti.  A fine guerra, gli altri li hanno ciucciati e sputati come ossi.  Ecco, questa è una domanda che mi è rimasta?  Perché la parte migliore della resistenza ha fatto quella fine là mentre gli altri si sono presi parlamento, paese e onori?  Non lo so proprio ed è una delle cose più dolorose, dato che se resistere in quel modo aveva un senso, allora sarebbe dovuta andare diversamente alla fine.  Lo stesso schiaffo ti arriva sul muso con Tobino che racconta la storia di tre amici diversi e il Togliatti lapidario di: "Anche un cavallo di razza può avere due pidocchi sulla criniera'".  Turri (Aldo Cucchi) ammazza quasi 2000 persone a Bologna col settimo GAP (saranno anche stati fasci ma è un carnaio...) e poi si prende del pidocchio per aver detto giustamente al capo che era tutto cueo e braga con Stalin.  Bella fine, proprio bella.

"Partigiani della montagna" di Giorgio Bocca è una cronaca secca della resistenza nel cuneese, al confine con la Francia.  Bocca non la manda a dire, non li chiama nemmeno fascisti o repubblichini: basta "briganti neri" a fare capire che secondo lui i morti sono, sì, morti da ambo le parti ma conta ciò che han fatto da vivi.  Gli uni contro e gli altri insieme ai demoni aizzati da Hitler.  In questi giorni, per altri motivi, ho avuto a che fare con la frase di Forrest Gump: "Stupid is who stupid does", che più o meno significa "sei stupido se ti comporti da stupido".  Potrei sottilizzare e dire che uno può anche fare lo stupido senza esserlo ma nel contesto di questo post sarebbero pippe cerebrali.  Sei un assassino se ti comporti come un'assassino?  Sparare alla nuca a un tizio in camicia nera che cammina sotto un portico di Bologna o appendere a un gancio un tedesco a caso recuperato in uno Strigno a caso cos'è realmente?  Ed è diverso da fare sbranare un antifascista da un cane rabbioso o impiccarlo con una gamba in cancrena dopo settimane di torture?  Dove sta la differenza fra essere un assassino e comportarsi come tale?  Non ho gran risposte né sono in grado di dare gran fondamento alle mie tesi, con o senza sei libri dietro di me.  Vedo la nemesi beffarda: "Prof., ho studiato tanto ma so pochino..."

Forse "resistere" significa opporsi al male, evidentemente lo si può fare con onore o rasentando l'infamia.  Evidentemente lo si può fare sempre, nelle piccole come nelle grandi cose.  Ho concluso, vale per i prossimi tre minuti ma non è poco, che opporsi a un mare di fango raramente lascia immacolata la giacca di lino bianca e il Panama indossati dal ribelle chic.  È molto più facile uscirne invece lordi di fango, schizzi e sangue.

Dopo questo frasone è meglio avviarsi verso la fine del post più sgangherato che il blog ricordi (ma da quando faccio lo storico, sociologo e il politico?  Torna ai tuoi conti, fa el bravo...)  Lo faccio coi ringraziamenti a un paio di persone:

  • ad Alessandro per avermi convinto a leggere Pansa, non c'è Bocca senza Pansa, no?  Lo hai definito "onesto intellettualmente" mentre io ricordavo solo carriolate di insulti feroci da parte dei "miei" critici di sinistra.  L'ho letto, forse bisogna leggerlo, forse non cambia nulla o forse si.  Sono onorato di poterne discutere con te;
  •  a Papà per avermi raccontato di Primo Visentin "Masaccio", comandante della "Martiri del Grappa", della sua forza interiore e del suo rigore senza macchia e senza paura, delle sue burle travestito da suora, del ponte di Bassano che salta in aria, delle sue immersioni nel luamaro per fregare i cani da fiuto dei tedeschi.  Grazie anche per avermi da sempre detto che non lo hanno ammazzato i Tedeschi con un tiro che avrebbe del miracoloso dal municipio di Loria ma che ci ha rimesso la vita il 29 Aprile, ben oltre i supplementari, colpito alle spalle da uno che aveva fatto troppe sporcherie con la camicia dei partigiani e che sapeva bene che avrebbe fatto i conti col comandante.  Il resto a un altro post...
  • grazie Luciana, per avermi raccontato che a Lentiai i partigiani li indicavano a dito (anzi con due dita) come banditi, gente che faceva i prepotenti col fucile e affamava i poveri cani.  Nonno Bortolo, veterano artificiere d'Africa, quasi non rivolse più la parola al fratello perché era andà in montagna.  Se la verità sta in qualche via di mezzo quello che dici tu (e Pansa) bilancia i molti casi in cui la gente i partigiani ha protetti come figli e quasi eletti a eroi; 
  • A Francesco Saverio Borrelli,  cui debbo il titolo del post.  È un esempio di come si può stare con la schiena dritta e di come, in questo paese, ci sia sempre il bisogno di opporsi ai ducetti di turno.


    Beppe Fenoglio, "Una questione privata"
    Elio Vittorini, "Uomini e no"
    Italo Calvino, "Il sentiero dei nidi di ragno"
    Mario Tobino, "Tre amici"
    Giorgio Bocca,"Partigiani della montagna"
    Luigi Meneghello, "I piccoli maestri"
    I lettori attenti avranno notato che i conti non li faccio mica tanto bene: intanto i libri sono 7 con l'aggiunta di Giampaolo Pansa, "La sporca guerra dei partigiani e dei fascisti". Poi di persone ne ringrazio 4 e non 2, meglio così.
    In un certo senso tutto è iniziato con Wu Ming 1 e lo strepitoso "Cent'anni a nordest" in cui si parla di tante cose. Mi sono chiesto chi sono i Veneti (cioè chi sono io!) e se Cecco Beppe fosse fra i miei miti:
        Me nono Cecco Beppe faceva l'aviatore
        Mancanza di benzina pisciava nel motore
        Mancanza di bombette tirava scoreggette
        Mancanza di siluri tirava stronzi duri
    Sono filastrocche per scandalizzare i bambini ma, no, Cecco Beppe non era e non è nel cuore di tutti noi Veneti!